SuperRandonnée Stelvio E-Retica – DNF

DISTANZA:
609Km (percorsi 427)
DISLIVELLO:
12700m D+ (percorsi 8400)
PARTENZA / ARRIVO:
Talamona (SO)
Percorso ad anello.
Vedi mappa parziale del percorso
SALITE AFFRONTATE:
Forcola di Livigno – 2315m
Passo Eira – 2210m
Passo Foscagno – 2291m
Passo Gavia – 2621m
Passo del Tonale – 1884m
Passo Palade – 1518m
Passo dello Stelvio – 2758m
FuornPass – Non scalato
FluelaPass – Non scalato
AlbulaPass – Non scalato
DIFFICOLTA’:*
5
PANORAMI:*
5

*Valutazioni personali

DNF è una sigla diffusa in molti sport e viene utilizzata generalmente quando l’atleta non porta a termine la prova. Letteralmente vuol dire “Did Not Finish”. Questa volta è toccata a me.

Venerdì 23 luglio è appena iniziato. E’ l’1.30 quando la sveglia mi desta nella stanza d’albergo a Morbegno. Poche ore di sonno, ma tanto bastano per muovermi come un automa, sistemare la maglietta nel bikepacking e indossare la divisa da ciclista. Pochi minuti prima delle 2 sono già in strada, avvolto da un cielo scuro che non lascia intravedere le stelle. Mi dirigo spedito verso la chiesa di Talamona, dove è posta la partenza della SuperRandonnée Stelvio E-Retica. Un vento dal sapore umido mi raggiunge, l’asfalto si fa presto bagnato e, oltre le creste corvine delle montagne che si confondono con l’orizzonte, vedo i lampi accendere la notte, quasi oltre quelle vette si stesse combattendo una furibonda guerra.

Imbocco il sentiero Valtellina e, immergendomi nel bosco, il buio è ancora più pesto costringendomi a tenere un’andatura moderata e guardinga. Le scarpe sono presto fradice, complice l’asfalto bagnato e l’acqua delle pozzanghere che non riesco a schivare in tempo.

Raggiungo Tirano mentre il cielo rischiara. Il tempo di un caffè e si inizia a ballare sull’infinita ascesa verso la Forcola di Livigno.  Il paese valtellinese e il valico sono separati da ben 34Km di salita, intervallati dalla piana di Poschiavo che concede 8Km di tregua. Le pendenze non sono quasi mai proibitive, ma la lunghezza erode piano piano le gambe. La prendo serenamente, ammirando i panorami che si aprono via via davanti agli occhi e confortato dal sole che risplende finalmente nel cielo.

Una veloce e fresca discesa ed eccomi a Livigno, dove la strada riprende schietta a salire verso il Passo Eira, al quale fa seguito a stretto giro di ruota, il Passo del Foscagno. Ogni volta che mi trovo a pedalare da queste parti mi sento un fuorilegge, sarà perché a causa dei confini e zone franche, si passano una serie di dogane. Per altro il giro Foscagno, Eira, Forcola prende proprio il nome di “Giro delle dogane” per questa caratteristica.

Mi godo a pieni polmoni la lunga discesa che mi porta a Bormio e, dopo una breve sosta rifocillante, riparto alla volta del mitico Gavia. Mi accorgo subito di avere un problema al deragliatore anteriore della bici che non mi permette di posizionare la catena sulla moltiplica grande, ma penso che, per arrivare in cima, la moltiplica grande mi servirà ben poco: controllerò a tempo debito.
E’ ormai primo pomeriggio, sono le ore più calde e il clima si fa a dir poco torrido. Guardo il sudore colare copioso sul tubo orizzontale e, in quegli eterni 26Km di ascesa, sento la testa venire meno. I pensieri negativi si addensano come nuvoloni scuri prima di un temporale. “Cosa ci faccio qui?”, “Chi me lo fa fare?”. Negli anni ho imparato a gestire questi momenti di sconforto, ma improvvisamente, in mezzo a quelle immense montagne, mi sento piccolo, inerme e solo. Tutto appare più grande di quel che è. La testa è il vero motore che di solito mi spinge quando il fisico si arrende, ma in questo caso mi sento sull’orlo di un precipizio del quale non scorgo il fondo.

Arrivo in cima, deciso a non mollare perché in fondo le gambe rispondono ancora bene e mi ripeto che strada facendo mi lascerò alle spalle anche questo momento buio.
Eccomi quindi sulle rampe del Tonale, salita che si arrampica regolare e costante senza creare grosse difficoltà. Arrivo al valico e, nel goffo tentativo di coprirmi con la mantellina, mi si rompe la cerniera. Provo a sistemarla ma non c’è verso, così l’unica cosa sensata che mi viene in mente di fare è infilarmela al contrario e legarla attorno allo sterno con un nastro in velcro che ho nella borsa. Non è una brillantissima idea perché scendendo il nastro tende ad allentarsi e la mantellina si apre scivolandomi giù dalle spalle, ma riesco comunque  a gestirmi.

Il tratto di collegamento della Val di Sole mi sembra infinito, sarà anche perché non posso spingere la moltiplica grande. Mi fermo e mi accorgo di aver perso la vite di fermo segnata come “H” (High speed – quella che permette al deragliatore di salire). Riesco a sentire Claudia che prova a confortarmi, ma tutto sembra inutile. Abbozziamo un piano: pedalerò fino alle 20, mi fermerò a mangiare qualcosa, mentre lei avviserà l’albergo prenotato a Merano per dormire qualche ora, che arriverò tardi. Mi fermo a Fondo (TN), dove basta e avanza la prima pizzeria che incrocio. Riparto poco dopo, affrontando quel che rimane dell’eterna e costante salita che porta al Passo Palade. Giungo ai 1518m del valico che è di nuovo buio, come quando sono partito. Sono stanco, sfatto e tutto quello che voglio è scendere a Merano, tuffarmi nel letto, spegnere la luce e i pensieri. Le sensazioni non sono buone, ma non ho tempo di ascoltare quello che ribolle in zucca, perché le palpebre si chiudono prima.

Riparto che l’albergo è ancora inanimato, mentre il cielo oltre il vetro lentamente rischiara. Non riesco a capire se sto meglio o peggio di ieri, mentre guardo la ruota anteriore scorrere lungo la ciclabile di collegamento tra Merano e il “prossimo mostro”. Sono una 50ina di chilometri, tutti in leggera ascesa, che mi rosolano per bene.
Eccomi ancora una volta di più, la decima ormai, al cospetto dello Stelvio e, forse come è giusto che sia, deve essere lui il giudice di questa diatriba. Ho talmente rispetto per tutte le emozioni che mi ha regalato, che sono disposto a sputare l’anima pur di giungere allo scollinamento, posto come al solito ai 2758m.

Man mano che i chilometri passano, le gambe cedono e, proprio nel momento in cui la testa dovrebbe mettersi in moto, ecco che invece rimane spenta. Arranco, annaspo, fatico oltre modo. La bicicletta oscilla pericolosamente da una parte all’altra come un pendolo. Mi superano uno, due, dieci, infiniti ciclisti. Li vedo sparire oltre il tornante che sembra non arrivare più. La cima, ancora così distante, è avvolta da nuvole grigie e minacciose che non lasciano presagire nulla di buono. Tengo a mente i metri che mancano, una sorta di conto alla rovescia prima della deflagrazione.
Eccomi negli ultimi 3Km e dal cielo comincia a cadere una pioggia gelida, mentre il vento mi sferza il viso come una lama. Infilo la mantellina, questa volta dal lato giusto, senza allacciarla sul davanti, tanto in salita il freddo si sente meno. Arrivo al passo esausto e sconfortato. Cerco riparo sotto a un tetto sporgente, mentre 8 timidi gradi raggelano l’aria. Ormai non ho dubbi: per me finisce qui.


Questo incedere lento e solitario si è tramutato da piacere a dolore ascesa dopo ascesa, a un peso che metro dopo metro, è diventato un macigno. Ho dato tutto quello che avevo, forse anche di più. Non ho rimpianti. Non sono solito abbandonare e, se lo faccio, è perché sento che è la cosa giusta da fare.

Sono chiaramente dispiaciuto perché con i tempi c’ero, mi mancavano 3 passi su 10, ci tenevo a completare il percorso, ma andare avanti in quelle condizioni non aveva più senso.
Non sento rimorso, delusione o tristezza. Ho portato a termine tante avventure e percorsi, il più delle volte andando “oltre”. Ho fatto del mio meglio, questa volta non è bastato.

Spiove. Rinfilo la mantellina al contrario e mi getto nella gelida discesa. Al bivio delle case cantoniere, il percorso mi porterebbe a destra, in direzione Svizzera, ma non ho tentennamenti. Non oggi. Prendo a sinistra, scendo a Bormio e raggiungo poi nuovamente Tirano. Lì mi attende il treno. Per oggi basta così.

A margine di tutto, credo che dire “basta” sia stato difficile quando decidere di andare avanti e penso altresì che a volte le “sconfitte”, che metto tra virgolette perché non so se si possono chiamare così, forse insegnano più delle “vittorie”. Sicuramente ho commesso degli errori nel pianificare l’avventura e ci sono arrivato troppo scarico, dopo un periodo di lavoro logorante. I problemi al deragliatore, la mantellina rotta, il freddo e la pioggia, sono solo accessori: se avessi avuto le energie giuste, non sarebbero stati problemi significativi. Quindi non sono queste la cause.
Ho sempre detto e rimango tutt’oggi convinto che il riuscire o meno a raggiungere un obbiettivo, come può essere scalare una montagna, dipende per il 40% dalle gambe, 40% dalla testa e 20% da madre natura che, se vuole impedirci qualcosa, lo può fare tranquillamente. In questo caso non so decifrare al meglio le percentuali, ma so per certo che la somma, oggi, non faceva 100.

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