Luparound 2018: per non arrendersi…

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La sveglia suona presto, alle 3.30 di notte. Fortunatamente e a differenza del solito quando raduno tutto alla rinfusa, ho già preparato ogni cosa la sera prima, o almeno così credo. Alle 4 sono fuori di casa, avvolto solo dal silenzio. Guardo le finestre chiuse, le luci spente e, mentre con la bici a mano mi avvio verso l’auto, immagino la vita dietro a quei vetri misteriosi. Immagino coppie innamorate racchiuse in uno di quegli abbracci perfetti che solo la notte ti sa regalare, immagino bambini dormire con la pancia scoperta e i pugni chiusi, immagino i giochi prendere vita e giocare tra di loro, come nelle favole.

L’asfalto scorre indifferente sotto le ruote dell’auto, mentre il cielo si rischiara e l’alba timida si nasconde dietro la foschia.
Alle 6.30, sono a Raldon (VR) ed è subito emozione nell’incontrare Maurizio, Roberto, Marco, Daniele e tutti gli amici della Lupatotina, compagni di fatica e salite per tutto il 2017. Indossare la divisa vintage della quale mi omaggia Maurizio è un onore enorme, tanto da tornare in macchina a cambiarmi prima di salire in sella.

Poco dopo le 7 siamo già in strada, io Daniele e Alessandro. Gli altri proseguono spediti del loro passo, mentre noi procediamo a un ritmo più tranquillo, nella pianura veronese ancora assonnata, con l’aria dal sapore di fragole.

50km per arrivare a S. Pietro Mussolino e la musica cambia passando da sonorità acustiche e tranquille a quelle più decise e acute di chiaro stampo “periniano”. Si sale e si scende, per tre volte di fila, come in un encefalogramma: passo di Santa Caterina (796m), Passo Xon (668m) e Pian delle Fugazze (1162m). Le prime due salite le sorpassiamo agevolmente, ma la terza è di ben altro stampo. I cartelli lungo il percorso che indicano la pendenza al 12/15% sono una rasoiata nelle gambe e una sprangata allo spirito. A complicare decisamente tutto è il clima: 32° e un’afa degna dei migliori pomeriggi messicani. Il sudore cola dalla fronte come da un rubinetto guasto, mentre gambe e braccia riluccicano al sole come sassi di un torrente. Temo di disidratarmi, così bevo un sorso d’acqua a ogni km. 11km con un litro: peggio di una ferrari a pieni giri!
Nonostante le pendenze proibitive, i primi 9km di salita vanno bene, ma è negli ultimi 2 che vedo la spia della riserva accendersi. Non tanto stanchezza o mal di gambe, quanto sfiancato dall’umidità. Arrivo in cima ciondolante, Alessandro è su da un pezzo, mentre Daniele arriva dopo un po’: bianco e sfatto come un lenzuolo dopo una centrifuga.

Ci convinciamo il peggio sia alle spalle, ma ci sbagliamo di grosso, solo che ancora non lo sappiamo.
Raggiungiamo Rovereto e imbocchiamo la val d’Adige dove a darci il benvenuto troviamo un vento prepotente che ci respinge. A complicare una situazione già di per sè angusta, ci si mette il movimento centrale della mia bicicletta che dopo qualche rimbrotto appena accennato, prende a emettere un lamento straziante e impetuoso simile a un frullatore che macina chiodi. Spero mi assista fino all’arrivo, ma mi rendo presto conto che il pedale sinistro gira per 1/4 a vuoto, costringendomi a spingere di più col destro e a sbilanciare il peso da un lato. Per non rompere troppo le scatole al gruppetto con le mie sonorità di ferraglia andata a male, mi tengo a un metro di distanza, anche se vuol dire essere schiaffeggiato dal vento.

Basta così? Assolutamente no! Perchè a 70km dall’arrivo, verso le 15.30, come in un eclissi di tutto rispetto, si fa buio e il cielo riversa sui nostri caschetti un autentico nubifragio. La strada si allaga tramutandosi in un torrente, mentre le auto cercano riparo sotto i ponti. Ci fermiamo e, dopo un tentativo fallito di fare ‘squatter’ in un’abitazione, ripartiamo sotto la pioggia battente. Per mezz’ora buona prendo acqua da ogni lato: da sopra per la forza di gravità, da destra per quella che mi riversa in faccia il vento, da sotto per quella mista a fango che alzano le mie ruote, da sinistra per gli tsunami scaturiti dalle auto che mi sorpassano. Tolgo gli occhiali, abbasso la visiera del cappellino e proseguo a tastoni, sperando che sotto quello strato d’acqua sul quale pedalo ci sia dell’asfalto.

Può andare peggio? Sì perchè dopo la pioggia arriva la grandine. Sassate di ghiaccio che mi colpiscono le mani, il viso e che ritmano sonorità tribali sul caschetto. Ci fermiamo di nuovo e per ripararci sotto delle piante dobbiamo attraversare una pozzanghera più simile a un lago alpino. Io lo faccio a dorso. Ne esco con le scarpe zuppe e due rospi nelle calze.

La grandine molla il colpo, la pioggia no. Noi neanche e ripartiamo. Sull’ultimo strappetto che porta a Rivoli Veronese, ognuno procede come può, facendo i conti con la propria fatica e il proprio logorio. Andature sfatte e sfinite, anime smarrite in una tempesta beffarda di fine maggio. Sotto quella moltitudine di biglie d’acqua lanciate dal cielo, inaspettatamente sorrido: ironia della sorte, ultimamente mi sono trovato spesso a pensare e scrivere di piogge magiche.

Contro ogni logica, sorprendentemente il soffitto sopra le nostre teste si rasserena e l’asfalto si asciuga, ma forse quando prendi in considerazione di alzarti alle 3.30 per pedalare per oltre 200km, la logica non l’hai proprio presa in esame. Le vaghe ipotesi di tagliare per Verona e accorciare un po’ il percorso, le rispediamo al mittente, perchè se questa randonnèe si chiama “per non arrendersi” non saremo di certo noi a farlo oggi.

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E allora si va avanti a testa bassa, per gli ultimi 35km.
Negli ultimi dieci, di nuovo il vento sfacciato  per provare a mandarci alla deriva, ma ormai è tardi. Servirebbero le cannonate.
Tagliamo il traguardo ormai sgonfio, dopo quasi 10 ore sui pedali e poco meno di 12 dalla partenza. Abbastanza per strappare il diploma e guadagnarci un risotto alle fragole. A rendere tutto magico c’è Marco che festeggia 39 anni di matrimonio con sua moglie Graziella, un nome una garanzia. Che spettacolo!

Vorrei fermarmi di più con gli amici veronesi, ma mi attendono alemeno 2 ore di strada, con il temporale a inseguirmi e le palpebre che si fanno pesanti come tende di piombo.
Entro in casa alle 23. Tutto da asciugare, me compreso.
Mi ritrovo nel letto un’ora più tardi e penso di essere contento di avercela fatta: un po’ perchè ci tenevo e un po’ perchè in fondo sarà una bella storia da ricordare, sorseggiando una birra, quando ci ritroveremo.

Mi addormento stringendomi al cuscino, in uno di quegli abbracci sognati da sveglio questa mattina.
Il cellulare mi desta alle 5.20, mentre forse gli stessi tuoni di ieri rimbombano oltre i vetri. La bici può restare a casa, almeno per oggi.

Il mio percorso