Quando l’autunno non scalda più

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Novembre è ormai inoltrato: le giornate si sono fatte corte, grige, piatte, tristi e quell’autunno dai colori roventi, sembra non scaldarmi più.

E pensare che ho sempre adorato pedalare tra le foglie multicolore scricchiolanti, fare foto alle tante sfumature che la natura offre in questi mesi dell’anno, ma ultimamente l’otturatore del mio cellulare, o forse di qualcosa di più profondo, rimane chiuso. Non indifferente, ma senza voglia di immortalare colori, sensazioni, emozioni che sembrano così remote. Lontane nel tempo e nello spazio.
L’autunno è sempre stato negli ultimi anni una sfida con il tempo: un week end per provare a salire su una vetta in più e pensare di averlo fregato una volta ancora. Un’altra tacca sul tubo orizzontale. “Domenica prossima però solo pianura“. Ma poi ci riprovi di nuovo e torni a casa sorridente e convinto di aver spinto l’inverno un po’ più in là.

In un giorno qualsiasi di novembre ci siamo invece ritrovati di nuovo in lockdown. Strega comanda color… Giallo, arancione o rosso? Gli stessi splendidi colori che animano questa stagione. La Lombardia, visti i numerosi contagi che coinvolgono principalmente le province di Milano, Varese e Monza Brianza, è stata catalogata come zone rossa, senza appello. Così ci siamo ritrovati a girare come criceti dentro i nostri comuni, disegnando tracce confuse con i nostri gps, figli dell’illusione di scovare una strada nuova, una via nascosta, una via. Una via d’uscita forse.

Sento tanta tristezza dentro per questa seconda ondata che ci ha travolti, per i negozi chiusi, per le città lasciate a sé stesse, per le persone sole e per queste nuove barriere invisibili e invalicabili, più o meno grandi, a seconda del colore, del comune, dell’attività.
Per lavoro attraverso spesso Milano, la città dove sono nato e cresciuto. La osservo con occhi malinconici e mi sembra irriconoscibile. Milano è una città che non ammette vie di mezzo: o la ami, o la odi. E’ una città viva, sempre, troppo forse. Nelle sue vene scorre il caos, il chiasso, l’andirivieni di persone, di macchine in coda, di tram bloccati da parcheggi selvaggi, di gruppi di turisti capeggiati da un ombrellino levato al cielo. Oggi Milano non è più così. L’ho amata quando ero ragazzo, l’ho odiata quando sono cresciuto perché differisce troppo dal mio modo di vivere, più incline al silenzio, alla natura, alla tranquillità. Oggi però la vedo solo come se non fosse più lei; come se fosse stata razziata, violentata, sfigurata. Strade deserte, sirene in lontananza una dietro l’altra, foglie e nostalgia spazzate via da un vento indifferente e solitario. Eventi, mostre, concerti, spettacoli. Tutto cancellato. Tutto vuoto. Silenzio. Quel silenzio che difficilmente anima Milano e che ora è così forte da fare troppo rumore, da dare fastidio.

Sono sinceramente convinto che tutto ciò fosse evitabile. Se a febbraio eravamo stati invasi senza preavviso da qualcosa di sconosciuto e misterioso, da un nemico invisibile che non sapevamo come fronteggiare, questa volta credo ci sia stata troppa leggerezza. Da parte di chi? In primis da parte delle persone. Ho visto gente accalcarsi durante tutta l’estate. Per gioco, per un aperitivo, per vacanza, per la spesa, per cena, per far festa. Purtroppo ho visto anche grupponi di decine di ciclisti, tutti insieme appassionatamente, mentre Claudia e io, sempre rigorosamente soli, ci chiedevamo che senso aveva. Non che uno sia costretto a pedalare da solo, per carità. Ma al limite gira sempre con le stesse due o tre persone, no?
Improvvisamente, invece, il virus non esisteva più. Si era dissolto nella calda e afosa euforia estiva.

E allora via con i gilè arancioni, i no-mask; no-vax, no-tax, no vacch…. “Quando non ci sono più vacche si chiude la stalla“. Così dice ogni tanto il mio vecchio. Ed è esattamente, a mio modo di vedere, l’altra parte di responsabilità. Quella di chi ci governa che, se ho apprezzato nel primo lockdown, ha secondo me peccato di leggerezza poi.  Molte situazioni non sono state sanate per tempo: trasporti, mezzi pubblici, supermercati, eventi…. E la strategia utilizzata per le scuole, fatti alla mano, è risultata fallimentare.
Facile parlare col senno di poi, penserete. Lo credo anch’io.
Non sono laureato e non capisco nulla di virus. Quello che faccio, semplicemente e forse banalmente, è analizzare i dati che vengono resi pubblici puntualmente ogni sera. Leggo, mi informo, o almeno ci provo. E di solito taccio, che di virologi in giro oggi è piena l’Italia. Sono gli stessi che quando è crollato il ponte di Genova erano ingegneri e che il lunedì mattina si trasformano in allenatori.
Ricordo, già a fine agosto, che parlando con Claudia dicevo: “Sicuramente ora sappiamo come prendere il virus e come gestirlo, ma se i numeri dei contagi continuano a aumentare esponenzialmente, le persone che dovranno essere ricoverate, riprenderanno a salire e a intasare gli ospedali. Se prima finiva in ospedale 1 su 10, ora magari ne finisce 1 su 100, ma se i contagi sono 10 volte tanto, il numero dei ricoverati non cambia“. Assurdità forse, chiacchiere da bar che non frequento, ma è quello che puntualmente è accaduto. Purtroppo.

Quello che mi sconforta di più oggi, è che se mi guardo alle spalle e ripenso ai mesi passati, so di essermi comportato responsabilmente. Di esserci comportati responsabilmente. Da quando ci hanno permesso di uscire di casa, abbiamo sempre girato in bici da soli: Claudia e io; io e Claudia. Unica eccezione: Ovada in randonnée, quella organizzata dalla nostra squadra che, per altro, abbiamo percorso da soli. Abbiamo evitato di vedere amici, di organizzare cene, serate in compagnia, pedalate di gruppo. Le uniche persone che abbiamo frequentato sono i nostri genitori, le nostre famiglie. E tutto ciò, ci chiediamo oggi, a cosa è servito?

Ci troviamo nuovamente chiusi tra le mura di casa, con la differenza che almeno questa volta possiamo uscire a fare quattro passi o a pedalare nei limiti comunali… Che per due che sono abituati a fare centinaia di km per vedere posti nuovi, è un vero spasso. Tutto sa tanto di “ora d’aria” di libertà fittizia e irreale.

Ma non è la cosa peggiore perché, così come a marzo, Claudia si è ritrovata nuovamente a casa. Cassa. Cassa integrazione (a oggi sta aspettando ancora quella di maggio scorso, giusto per la cronaca). E questo nonostante tutti i dispositivi di sicurezza che hanno dovuto adottare e nonostante, a oggi (anzi a qualche settimana fa), i casi noti di contagio da coronavirus dove lavora(va), siano la stroboscopica cifra di: zero.
Ci aspettavamo, sinceramente, che, quando era ormai inevitabile una seconda serrata, si andasse ad agire dove avviene realmente la trasmissione e non su quelle piccole attività che si sono sobbarcate spese ulteriori per attenersi alle regole e dove i contagi sono nulli.

E’ frustrante, deprimente. Già, perché quando dici a una persona di stare a casa dal proprio impiego, non gli stai togliendo solo il lavoro. La stai privando anche dell’orgoglio, della dignità, della passione e dedizione che ci mette ogni giorno per sbarcare il lunario. Ma poco importa, vero?

Eccoci qui dunque, di nuovo fermi e impotenti a osservare dalla finestra il mondo che scorre come un film già visto. Le giornate trascorrono lente, a volte senza un senso preciso, a volte senza luce anche quando fuori c’è un pallido sole.
Al lavoro io invece vado ancora. In bici. E’ il giorno in cui faccio il lungo. Andata e ritorno: 112Km. 56 per andare, altrettanti per tornare. Altri giorni lavoro da casa e allora mi alzo comunque presto ed esco per un giro nei confini comunali, quando ancora fuori è buio e tutto è immobile. Poi faccio ritorno a casa, accendo il computer e lascio che il tempo scorra.

Mi sento triste e deluso. Ero convinto che dal lockdown di marzo saremmo usciti come persone migliori. Mi sbagliavo.
Sono certo che noi, nel nostro piccolo, ci siamo comportati responsabilmente ed è esattamente quello che continueremo a fare. Agiremo secondo coscienza, la nostra. E quando mi sento ancora dire che non dovremmo uscire in bici perchè “Se cadi vai a intasare il pronto soccorso“, mi verrebbe da rispondere che se ci fossimo comportati tutti con senno, ora il pronto soccorso non sarebbe intasato, le attività e i negozi non sarebbero chiusi, le città non sarebbero lande desolate e potremmo girare liberamente. Mi verrebbe da rispondere che se rinunciassimo all’unica passione, l’unico svago che abbiamo, forse il pronto soccorso lo riempiremmo ugualmente perché non ce la faremmo mentalmente.

Invece taccio. “Non discutere con uno stupido perché chi ti osserva potrebbe non cogliere la differenza tra te e lui“. Dice anche questo ogni tanto il mio vecchio. E allora resto in silenzio. Come quando la mattina trafiggo l’aria nel buio e sparisco in una via deserta a cavallo del mio puledro a pedali. Poi il cielo lentamente si rischiara e noto che il mondo là fuori non è fermo. Semplicemente, va tranquillamente avanti senza di noi. Così, mentre uno scoiattolo attraversa la strada ancora umida, mi fermo e guardo l’orizzonte e i pensieri confusi come quelli che sporcano questa pagina rimasta candida fino a poco fa, evaporano nella luce fresca del mattino e si sciolgono nel nulla. Le montagne innevate, arrossate dai primi raggi di sole, sono così distanti oggi. O forse, quello distante, oggi, sono io.